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RONCITELLI. Lontani e cari ricordi di noi ragazzi del’53 di Cesare Campolucci

Esistono due condizioni necessarie e sufficienti perché si realizzi il piccolo miracolo della narrazione. Servono due figure: una che ha voglia di raccontare perché sa, e un’altra che ha voglia di ascoltare perché non sa. Non è sempre facile che questo succeda, soprattutto quando sono diverse le generazioni. Allo scopo potrebbero servirci delle parole-guida utili a ricercare oggetti lasciati per strada, e non è detto che col solo ritrovarli riusciremmo a comporre il mosaico emozionale che muove il narratore a prendere la penna.

La memoria di Cesare Campolucci offre una fila di oggetti e personaggi: Roncitelli, Pio IX, Santa Liberata, gli artigiani, i venditori, la ricamatrice Armanda, il lattaio a domicilio, la fiera del bestiame, la povertà di (quasi) tutti, l’unica automobile: un taxi, l’unico televisore del paese, Lassie, Rin Tin Tin e Penna di Falco, il cinema parrocchiale, il rientro prima di sera, le porte di casa aperte, fuori di casa un metro di neve, pochi bagni in casa e le latrine fuori, acqua potabile alla fonte, il pozzo come frigorifero, i lavatoi pubblici, il bagno nel mastello, la cucina economica e la stufa a legna, il prete e la “monica”, il materasso di foglie di granturco, le lenzuola ruvide, a scuola penna pennino inchiostro e calamaio, in ginocchio dietro la lavagna, gli stonati fuori dall’aula, le botte tra ragazzi, i giocattoli coi pezzi di legno e così via: una distanza abissale tra secondo dopoguerra e i vent’anni nel nuovo millennio. Ecco di cosa erano pieni i vuoti in cui sono vissuti i figli del baby-boom roncitellese del 1953.

Ma il pregevole tentativo di Cesare Campolucci, in pieno controllo della nostalgia, ne ripropone la concretezza quotidiana in un taglio orizzontale di figure che intessono un intero modo di vita. Qualcuno può vederne la distanza, qualcuno riconoscere le radici del vivere odierno; qualcuno anche un possibile ritorno involutivo dai troppi dopoguerra del Duemila.

Forse i simpatici signori che giocano a carte durante il tempo della loro pensione ci saranno di nuovo maestri. In ogni caso lo scritto è qui per ricordare – confortato dal pensiero di Emanuele Coccia – come una stagione umana non sia altro che un tratto metamorfico di un’unica, sola vita.

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